Con enorme soddisfazione,
e proprio con data 4 settembre,
esce il mio articolo su "Grandangolare", settimanale di attualità, cultura, politica, sport per gli italiani in Canada e nel Mondo.
e proprio con data 4 settembre,
esce il mio articolo su "Grandangolare", settimanale di attualità, cultura, politica, sport per gli italiani in Canada e nel Mondo.
Per il momento mandiamo la nostra voce oltreoceano con la speranza che forse a qualcosa servirà.
Ho appena aperto la mail e ho trovato la richiesta di collaborazione con il settimanale per affrontare la questione "disabilità", proprio per gli italiani in Canada e nel resto del Mondo.
Presto, se concorderemo di collaborare, vi racconterò di più.
Per il momento rafforziamo solo un po' la speranza che forse è possibile migliorare. Quindi non possiamo smettere di lavorare.
Le idee hanno bisogno di muoversi, di girare.
E per me è un grande onore rimanere al servizio delle fragilità.
E per me è un grande onore rimanere al servizio delle fragilità.
Marina MIDEI
Il mio articolo pubblicato su "Grandangolare"
settimanale di attualità, cultura, politica, sport per gli italiani in Canada e nel resto del Mondo.
4 settembre 2018
4 settembre 2018
LETTERA APERTA
Illustrissimi Signori,
In poche righe mi presento: mi chiamo Marina
Midei, donna italiana di 43 anni.
La mia vita da quasi sedici anni ha virato
necessariamente a supporto e a servizio della disabilità, avendo due figlie
gemelle con disabilità gravissima dalla nascita.
Di nient’altro vorrei parlare di me se non di chi
vive non possedendo la disabilità ma da essa ne rimane ferita e coinvolta ogni
istante della propria vita.
Il destino ci marchia alla nascita: le mie figlie
già in utero segnate, io, forse, dal cielo ancor prima.
Non avrei voluto essere proprio io sotto quel segno, né tantomeno ci avrei voluto
loro, due ragazze senza macchia che della vita hanno preso ben poco e ricevuto
ancor meno.
Non parlerò del dolore che non si può raccontare,
dei sogni che svaniscono, delle fatiche che non ti lasciano e piuttosto si
moltiplicano.
Della disperazione quando viene meno la speranza.
Della forza che occorre per rialzarsi.
Del peso nel cuore guardando al futuro, delle
lacrime versate pensando al passato.
Delle persone smarrite durante il cammino, di
quelle incrociate nelle fermate, o delle poche rimaste, cambiate.
Il tempo perso che non hai potuto godere. Il tempo
da spendere che forse non riuscirai ad utilizzare.
Non voglio parlare di quello che è complicato
persino da raccontare, né di quello che è semplice e che fa addirittura più
male.
Della gabbia senza sbarre che imprigiona e
soffoca. Dell’aria che manca anche faccia a faccia con il cielo.
Del desiderio di svegliarsi da un incubo che non è
il nostro, delle urla soffocate da un razionalità che non ce le concede.
Del sorriso che non deve mancare o di ogni pianto
nascosto che non bisogna far vedere.
Della voglia di vivere che comunque rimane.
Dell’idea
di farcela inventando un altro modo per sopravvivere.
Chi non ha conosciuto la disabilità non sa.
Il mondo è lo stesso, ma arrivarci è diverso.
Le persone tante, eppure la solitudine
morde.
Si è scritto tanto, si è detto di più.
Le persone “con disabilità”. Le persone “con
bisogni speciali”.
Le persone.
Se riuscissimo a parlare di meno, e a scrivere di
meno, per una volta forse avremmo colto il senso delle parole.
Se riuscissimo a scoprire le persone, invece che
le disabilità e i bisogni forse avremmo reso più giustizia all’umanità.
In un panorama di uguaglianza, scopriremmo che ogni
uomo ha diversità e necessità: alcuni di più, altri di meno. Alcuni in maniera
temporanea, altri in modo definitivo. Alcuni con priorità di intervento, altri
con meno bisogno.
In un panorama che stavolta sarebbe invece solo di equità, se quelle necessità fossero come qualcuno pensa privilegi, le mie
figlie sarebbero proprio come ogni altra ragazza sogna: principesse.
E non ragazze sfortunate, poverine ed ammalate.
E di loro questo il mondo coglie: la diversità, le
necessità. Quello cioè che con le parole gli suggeriamo.
Ma non è forse la loro importanza che dovrebbe
essere tutelata? E nell’inclusione valorizzata?
Allora perché ancora dare senso a descrizioni:
“con disabilità”, “con bisogni speciali”? Non funzionerebbe meglio, cambiando
la logica delle parole e delle azioni, abolire le parole facendo con l’esempio
insegnamento invece di aspettare che il mondo abbia appreso la lezione?
Perché aspettando che il mondo comprenda, accetti
e accolga, chiedete a loro, due ragazzine, di dimostrare di saper vivere in una
Società che molto spesso non è pronta. Senza preoccuparvi se ce la possano fare
a percorrere strade o semplicemente a voltarsi nel letto la notte.
Se aspettiamo che sia la Società a chiamare al
centro le persone, da sole le mie figlie, senza sentir pronunciare mai quel
nome che invece dovrebbe farle riconoscere, continueranno a sentirsi sbagliate
e insufficienti per questo mondo.
Ma siamo onesti! Fatta eccezione per qualche buona pratica che ancora fa notizia, quale esempio da una Società che non salva prima
chi è in difficoltà ma chi è importante, che non lascia spazio a chi necessita
ma a chi conta, che non rispecchia con i fatti le parole e insegna a raccontare
e meno a fare?
Che i posti in prima fila riservati spesso sono
solo quelli del cinema, che nessuno vuole e, per il resto, è sempre l’ultimo
posto che reclamando viene concesso.
A cosa servono dunque le parole? A rafforzare la
comprensione che il significato suggerisce?
Sono una mamma di 43 anni e da sedici anni la
disabilità è diventata parte di me, pur non possedendola.
Le mie figlie sono persone, non gemelle con
disabilità gravissima con cui ve l’ho raccontate all’inizio di questa lettera.
Sono persone all’interno di una società che nella
cultura va cambiata.
Ma non sulle spalle e sul silenzio di chi per sé
chiede intanto dignità.
E il mondo avrà pur tempo di maturare per
comprendere e migliorare.
Le persone invece sono già mature per individuare
le priorità e smettere di chiedere a due ragazzine di sopportare più di quanto
già fanno e non avrebbero mai dovuto fare.
Gloria e Sophia sono persone: come le altre
persone.
E se proprio occorre spiegare con le parole:
DISABLED IMPORTANT PEOPLE (D.I.P.) e non più P.I.D.
(Persone In Difficoltà). Perché questo incide non solo nelle menti di chi le
guarda ma nella sofferenza stessa delle loro vite.
E dalle menti ad una Società che relega ai margini
e non pone al centro il passo è breve.
I diritti, e non le persone, vengano riconosciuti,
in modo anche descrittivo, con un banale permesso di autorizzazione (DIP) e non
si classifichino le persone con una descrizione che solo di
disabilità e bisogni potrà raccontare.
Tante cose possono ancora migliorare.
Noi possiamo ancora cambiare.
Se partissimo fin anche dalle parole sarebbe pur
sempre una partenza e un bell’esempio di esercizio di volontà.
Forse proprio grazie a due ragazzine italiane di
sedici anni che avranno dato il loro contributo per un mondo che appartiene
anche a loro.
Con la speranza che l’Onu accolga la nostra
richiesta di abolizione di ogni parafrasi descrittiva quando quel che basta è
sapere che siamo tutti solo Persone.
Nel mondo.
Per mezzo della civiltà.
E di una grande umanità.
Marina Midei
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