Marina Midei

Marina Midei
Attivista per i Diritti Umani e Civili, Docente, Scrittrice, Consulente in Comunicazione, Mediatore Creditizio Unione Italiana Cambi

giovedì 23 agosto 2018

"Persona: L'individuo umano in quanto oggetto di considerazione o di determinazione nell'ambito delle funzioni e dei rapporti della vita sociale." di Marina Midei

Con enorme soddisfazione,
e proprio con data 4 settembre,
esce il mio articolo su "Grandangolare", settimanale di attualità, cultura, politica, sport per gli italiani in Canada e nel Mondo.
Per il momento mandiamo la nostra voce oltreoceano con la speranza che forse a qualcosa servirà.
Ho appena aperto la mail e ho trovato la richiesta di collaborazione con il settimanale per affrontare la questione "disabilità", proprio per gli italiani in Canada e nel resto del Mondo.
Presto, se concorderemo di collaborare, vi racconterò di più.
Per il momento rafforziamo solo un po' la speranza che forse è possibile migliorare. Quindi non possiamo smettere di lavorare.
Le idee hanno bisogno di muoversi, di girare.
E per me è un grande onore rimanere al servizio delle fragilità.
Marina MIDEI


 Il mio articolo pubblicato su "Grandangolare"
settimanale di attualità, cultura, politica, sport per gli italiani in Canada e nel resto del Mondo.
4 settembre 2018



LETTERA APERTA
Illustrissimi Signori,
In poche righe mi presento: mi chiamo Marina Midei, donna italiana di 43 anni.
La mia vita da quasi sedici anni ha virato necessariamente a supporto e a servizio della disabilità, avendo due figlie gemelle con disabilità gravissima dalla nascita.
Di nient’altro vorrei parlare di me se non di chi vive non possedendo la disabilità ma da essa ne rimane ferita e coinvolta ogni istante della propria vita.
Il destino ci marchia alla nascita: le mie figlie già in utero segnate, io, forse, dal cielo ancor prima.
Non avrei voluto essere proprio io  sotto quel segno, né tantomeno ci avrei voluto loro, due ragazze senza macchia che della vita hanno preso ben poco e ricevuto ancor meno.
Non parlerò del dolore che non si può raccontare, dei sogni che svaniscono, delle fatiche che non ti lasciano e piuttosto si moltiplicano.
Della disperazione quando viene meno la speranza.
Della forza che occorre per rialzarsi.
Del peso nel cuore guardando al futuro, delle lacrime versate pensando al passato.
Delle persone smarrite durante il cammino, di quelle incrociate nelle fermate, o delle poche rimaste, cambiate. 
Il tempo perso che non hai potuto godere. Il tempo da spendere che forse non riuscirai ad utilizzare.
Non voglio parlare di quello che è complicato persino da raccontare, né di quello che è semplice e che fa addirittura più male.
Della gabbia senza sbarre che imprigiona e soffoca. Dell’aria che manca anche faccia a faccia con il cielo.
Del desiderio di svegliarsi da un incubo che non è il nostro, delle urla soffocate da un razionalità che non ce le concede.
Del sorriso che non deve mancare o di ogni pianto nascosto che non bisogna far vedere.
Della voglia di vivere che comunque rimane. 
Dell’idea di farcela inventando un altro modo per sopravvivere.

Chi non ha conosciuto la disabilità non sa.
Il mondo è lo stesso, ma arrivarci è diverso.
Le persone tante, eppure la solitudine morde.
Si è scritto tanto, si è detto di più.
Le persone “con disabilità”. Le persone “con bisogni speciali”.
Le persone.
Se riuscissimo a parlare di meno, e a scrivere di meno, per una volta forse avremmo colto il senso delle parole.
Se riuscissimo a scoprire le persone, invece che le disabilità e i bisogni forse avremmo reso più giustizia all’umanità.
In un panorama di uguaglianza, scopriremmo che ogni uomo ha diversità e necessità: alcuni di più, altri di meno. Alcuni in maniera temporanea, altri in modo definitivo. Alcuni con priorità di intervento, altri con meno bisogno.
In un panorama che stavolta sarebbe invece solo di equità, se quelle necessità fossero come qualcuno pensa privilegi, le mie figlie sarebbero proprio come ogni altra ragazza sogna: principesse. 
E non ragazze sfortunate, poverine ed ammalate.
E di loro questo il mondo coglie: la diversità, le necessità. Quello cioè che con le parole gli suggeriamo.
Ma non è forse la loro importanza che dovrebbe essere tutelata? E nell’inclusione valorizzata?
Allora perché ancora dare senso a descrizioni: “con disabilità”, “con bisogni speciali”? Non funzionerebbe meglio, cambiando la logica delle parole e delle azioni, abolire le parole facendo con l’esempio insegnamento invece di aspettare che il mondo abbia appreso la lezione?
Perché aspettando che il mondo comprenda, accetti e accolga, chiedete a loro, due ragazzine, di dimostrare di saper vivere in una Società che molto spesso non è pronta. Senza preoccuparvi se ce la possano fare a percorrere strade o semplicemente a voltarsi nel letto la notte.
Se aspettiamo che sia la Società a chiamare al centro le persone, da sole le mie figlie, senza sentir pronunciare mai quel nome che invece dovrebbe farle riconoscere, continueranno a sentirsi sbagliate e insufficienti per questo mondo.
Ma siamo onesti! Fatta eccezione per qualche buona pratica che ancora fa notizia, quale esempio da una Società che non salva prima chi è in difficoltà ma chi è importante, che non lascia spazio a chi necessita ma a chi conta, che non rispecchia con i fatti le parole e insegna a raccontare e meno a fare?
Che i posti in prima fila riservati spesso sono solo quelli del cinema, che nessuno vuole e, per il resto, è sempre l’ultimo posto che reclamando viene concesso.
A cosa servono dunque le parole? A rafforzare la comprensione che il significato suggerisce?
Sono una mamma di 43 anni e da sedici anni la disabilità è diventata parte di me, pur non possedendola.
Le mie figlie sono persone, non gemelle con disabilità gravissima con cui ve l’ho raccontate all’inizio di questa lettera.
Sono persone all’interno di una società che nella cultura va cambiata.
Ma non sulle spalle e sul silenzio di chi per sé chiede intanto dignità.
E il mondo avrà pur tempo di maturare per comprendere e migliorare.
Le persone invece sono già mature per individuare le priorità e smettere di chiedere a due ragazzine di sopportare più di quanto già fanno e non avrebbero mai dovuto fare.
Gloria e Sophia sono persone: come le altre persone.
E se proprio occorre spiegare con le parole:
DISABLED IMPORTANT PEOPLE (D.I.P.) e non più P.I.D. (Persone In Difficoltà). Perché questo incide non solo nelle menti di chi le guarda ma nella sofferenza stessa delle loro vite.
E dalle menti ad una Società che relega ai margini e non pone al centro il passo è breve.
I diritti, e non le persone, vengano riconosciuti, in modo anche descrittivo, con un banale permesso di autorizzazione (DIP) e non si classifichino le persone con una descrizione che solo di disabilità e bisogni potrà raccontare.
Tante cose possono ancora migliorare.
Noi possiamo ancora cambiare.
Se partissimo fin anche dalle parole sarebbe pur sempre una partenza e un bell’esempio di esercizio di volontà.
Forse proprio grazie a due ragazzine italiane di sedici anni che avranno dato il loro contributo per un mondo che appartiene anche a loro.
Con la speranza che l’Onu accolga la nostra richiesta di abolizione di ogni parafrasi descrittiva quando quel che basta è sapere che siamo tutti solo Persone.
Nel mondo.
Per mezzo della civiltà.
E di una grande umanità.
Marina Midei



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